Rom e Sinti oggi, marzo e giugno 2022
Editoriale di Carla Osella
Paese dei campi o campi nei paesi?
Leggo in vari articoli come l’Italia venga dichiarata il paese dei campi, e ogni volta mi viene da sorridere e mi chiedo: o chi lo dichiara e scrive non conosce la realtà europea, oppure vuole acutizzare ancora di più le problematiche dei campi.
La Francia (usa, per definirli l’acronico MENS, cioè minorità etnica non sedentaria), ha moltissimi campi, negli anni passati decine di aree di sosta erano state costruite vicino a Parigi, molte delle quali illegali, numerosi i gruppi anche di kosovari, che in altri paesi sono minimi.
Anche l’Inghilterra ha numerosi campi autorizzati e così l’Austria, mentre la Germania ha deciso, da anni, di realizzare progetti di inclusione: offre a tutti i rom casa, lavoro e scuola. Dopo un periodo di inserimento, se non vengono osservate le regole su cui si im pegnano, vengono fatti uscire dal progetto e non è permesso loro alcun recupero. Escono dal pro getto, ma anche dalla Germania. Sono numerosi, anche rom che erano in Italia, quelli che hanno scelto di trasferirsi in Germania per poi, dopo pochi mesi, torna re da dove erano partiti, perché non avendo osservato le poche regole imposte dalla Germania sono stati allontanati.
La Svizzera ha migliorato negli ultimi anni la rete delle aree autorizzate, sia per i rom locali, gli jenisch (di cui sono nomadi 5.000 su 35.000), sia per le numerose famiglie di manouche francesi, noti frequentatori dei vari cantoni, anzi li ha riconosciuti anche come minoranza nazionale. Ricorda Igor, ormai se dentarizzato da molti anni: “per i nostri parenti che sono ancora nomadi le aree attrezzate non bastano mai”.
Bisogna chiudere i campi, “bisogna”: questo verbo è necessario, è indispensabile, siamo tutti più o meno d’accordo, gli abitanti che vivono in questi luoghi si dichiarano d’accordo, ma hanno una domanda da fare a chi ha il potere decisionale: “Chiudiamo pure tutti i campi, ma dove andremo?”. Come si fa a rispondere a una domanda tanto complessa, che coinvolgerà migliaia di persone e cambierà la vita reale e futura di molti?
Rosa è una donna croata che ha vissuto 10 anni in appartamento, ma poi, nel Duemila, è tornata al campo dove aveva passato parte della sua vita. Oggi ha una bella baracca che, se invece di legno fosse realizzata con i mattoni, sarebbe una villetta. Ha sposato le numerose nipoti ed è diventata da alcuni mesi anche nonna bis. Le chiedo cosa desidera per il domani, mi dice che vorrebbe andarsene, perché “Forse è giun to il momento…”.
Heta ha ricevuto la casa dal Comune di Roma, spiega che ha accettato, ma non può pensare di chiudersi in una casa: “è bella, è grande”, spiega, ”ma in realtà mi sembrerebbe di soffocare. Io non sono fatta per stare al chiuso, mi manca l’aria, i vicini di casa, la gente”. Infatti, in un campo non si è mai soli: il vociare dei bambini, la musica di questa o di quell’altra famiglia che festeggia un avvenimento o perché quel giorno vogliono far festa, e festa significa musica, buon cibo e birra…. e la vita trascorre così.
Non è pensabile per rom e sinti avere un unico modello abitativo, per ovvi motivi c’è chi pensa a un terreno privato, chi vuole restare al campo, chi vuole un appartamento dal Comune, chi occupa una casa popolare, chi vive sulle piazzuole.